domenica 28 febbraio 2010

Fin dal principio abbiamo dovuto assistere ad un "processo parallelo".
Anziché darci delle doverose risposte sulla morte di Stefano, si metteva in discussione lui, la sua vita, i nostri rapporti famigliari. Stefano veniva descritto come una persona che si stava lasciando andare e che non voleva alcun contatto con l'esterno. In tutto questo io non riconoscevo mio fratello.
Fino a quando, leggendo attentamente la lunga relazione sull'indagine del D.A.P., la mia famiglia è venuta a conoscenza che Stefano in più circostanze aveva chiesto di incontrare il proprio avvocato. E infatti sulle cartelle cliniche è scritto che fin dal primo giorno Stefano rifiutava di alimentarsi fino a che non avrebbe incontrato il suo legale o l'operatore del C.E.I.S., la comunità che aveva frequentato per tre anni e grazie alla quale in passato aveva risolto i suoi problemi di tossicodipendenza. Perché nessuno al Pertini si è umanamente preoccupato di interrompere il suo digiuno consentendogli quello che era un suo diritto?
Ma non è tutto.
Dopo la morte di Stefano al Pertini fu redatto un verbale, sul quale erano elencati tutti gli effetti personali e le cose che aveva con se, cose che vennero poi inviate al carcere di Regina Coeli dove fu redatto un secondo verbale. Quando, dopo non poche difficoltà, abbiamo ritirato a Regina Coeli la scatola contenente gli effetti personali di Stefano ci siamo accorti di un'anomalia: tra i due verbali c'era una differenza. Nel primo era indicata una busta da lettera, nel secondo no. Ed effettivamente nella scatola non era presente nessuna lettera.
L'esistenza di una missiva trova riscontro anche nella dichiarazione resa al D.A.P. da parte una vicesovrintendente, la quale dichiara che il 21 ottobre aveva lei stessa consegnato a Stefano un foglio e una busta affrancata, consigliandogli di scrivere alla comunità, e lo aveva visto scrivere.
Solo dopo aver pubblicamente denunciato il fatto, siamo entrati in possesso della lettera, scritta da Stefano il 20 ottobre e spedita al C.E.I.S., stranamente, quattro giorni dopo la sua morte, e da chi? L'indirizzo del mittente è stato scritto da qualcun'altro. Che senso aveva inviare quella lettera, che era una chiara richiesta di aiuto, quando ormai mio fratello non poteva più essere aiutato? E soprattutto perché è stata spedita il 26 ottobre, cioè quando il "caso" era scoppiato?



Leggere quelle poche righe, scritte con calligrafia incerta, è stato per la nostra famiglia un momento di enorme impatto emotivo: la sua ultima disperata richiesta di aiuto.
Stefano stava molto male... ma Stefano voleva vivere!
Non posso non immaginare mio fratello, nella sofferenza e nella solitudine totale dei suoi ultimi momenti, sentendosi abbandonato dalla sua famiglia, non sapendo che invece noi eravamo lì fuori a chiedere sue notizie, che chissà perché non ci venivano date.
La lettera è solo uno dei tanti lati oscuri nella tragica vicenda di mio fratello.
Un altro mistero è quello dell'avvocato.
Perché, se Stefano aveva chiesto il suo legale di fiducia, in udienza, con suo grande stupore, si è ritrovato l'avvocato d'ufficio? Se invece è vero che non lo aveva mai nominato, come facevano a conoscerne il nome, Stefano Maranella, quando sul verbale di consegna viene scritto (erroneamente) come legale d'ufficio al posto del legale che gli era stato assegnato in udienza?
E ancora, perché sul verbale di arresto è indicato che Stefano era nato in Albania ed era senza fissa dimora? Lui ce l'aveva una dimora, e vi era stata appena effettuata la perquisizione!
Per non parlare di quello che è accaduto dopo.
Perchè al Fatebenefratelli gli vennero diagnosticate le fratture e gli venne data una prognosi di 25 giorni e Stefano, che non era mai stato in carcere, ha firmato per tornarvi? Perchè alla fine mio fratello, che urlava dal dolore ed era costretto immobile, è stato trasferito al reparto detentivo del Sandro Pertini, un luogo di degenza, dove non è stato curato ed è stato lasciato morire?